venerdì 30 settembre 2011

No al carbone per Porto Tolle. Associazioni e partiti a convegno


Centrale Enel di Porto Tolle

SABATO 8 OTTOBRE AL CENTRO DIOCESANO DON BOSCO DI ROVIGO CONVEGNO

"OLTRE IL CARBONE UNA RISPOSTA ALLA CRISI: ENERGIA-LAVORO-AMBIENTE E SALUTE".


Programma:

9.30 Registrazione partecipanti
9.45 Apertura.
Presiede Oscar Mancini - Portavoce Veneto Comitato Referendario
Saluto di Don Carlo Marcello - Responsabile Pastorale sociale e del Lavoro Rovigo/Adria.
Introduce Stefano Ciafani - Legambiente - “29 ottobre: giornata di mobilitazione nazionale contro il carbone”
10.15 Eddy Boschetti - Comitato Polesine - “una centrale a carbone in mezzo a un parco”
10.30 Matteo Ceruti - Legale rappresentante associazioni e comitati - “la riconversione a carbone della centrale di Porto Tolle”

10.45 1° sessione: Alternative per un lavoro degno

Relazioni di
Massimo Scalia - Università La Sapienza Roma
Giuseppe Onufrio - Direttore di Greenpeace Italia
Interventi di
Vittorio Bardi - FIOM Nazionale
Giuseppe Bortolussi - Segretario CGIA Mestre
Cesare Fera - Impenditore, Presidente Associazione Nazionale Energia Solare Termodinamica

12.15 Dibattito.

Interventi istituzioni, partiti, cittadini
13.00 Pausa Pranzo

14.15 Ripresa Dibattito
15.00 2° sessione: Tutelare la salute
Luigi Gasparini - Referente per Ferrara Associazione Medici per l'Ambiente
15.15 3° Sessione: Contrastare i cambiamenti climatici

Relazioni di
Maria Grazia Midulla - WWF - “l’impegno dell’Europa”
Matteo Mascia - Università di Padova - “etica e clima”

15.45 4° Sessione Democrazia e Partecipazione
Luca Tornatore - Rigas
Mario Agostinelli - Portavoce contratto mondiale energia/clima
16,15 - Dibattito
16,45 - Rappresentante comitato Polesine.
Le modalità organizzative della manifestazione Nazionale di Adria.
Eventuali richieste di chiarimento.
17.00 Conclusione del Convegno.

Promuovono:

Alternativa, AltraMente scuola per tutti, AltroVe, Arci, A Sud, Cepes, Circolo culturale AmbienteScienze, Comitato Energiafelice, Comitato SI' alle Rinnovabili NO al nucleare, Coordinamento Veneto contro il carbone, Ecologisti Democratici, Fare Verde, Federconsumatori, Focsiv - Volontari nel mondo, Forum Ambientalista, Greenpeace, ISDE-Medici per l'Ambiente, Italia Nostra, Kyoto Club, Legambiente, Lipu, Movimento difesa del cittadino, Movimento Ecologista, OtherEarth, Rete della Conoscenza (Uds-Link), RIGAS, Slow Food Italia, WWF, Ya Basta.


Aderiscono: Federazione nazionale dei Verdi, IDV, Prc-Fds, SEL.
Adesioni individuali: Virginio Bettini, Ilaria Boniburini, Anna Donati, Edoardo Salzano.

Info: Sito web http://nocokepolesine.blogspot.com/ E-mail: deltacomune@gmail.com / segreteria@fermiamoilcarbone.it; www.fermiamoilcarbone.it



No a Veneto City

Il Corriere del Veneto ha pubblicato on line un sondaggio su Veneto City.


fotoCliccate il seguente link e votate NO




Due cortei e undicimila firme contro Veneto City. Che ne pensate? Volete la costruzione della città dello shopping tra Dolo, Pianiga e Mirano?



No X








giovedì 29 settembre 2011

I beni comuni per uscire dalla crisi





Vi invitiamo a leggere questo estratto dal saggio di Enrico Grazzini “Il bene di tutti. L'economia della condivisione per uscire dalla crisi”, Editori riuniti, 2011. Una lettura lunga ma di grande interesse.


Giornata dell'Ambiente,  le foreste italiane
Autunno in Val di Funes
Fotografia di Sergio Pitamitz, Corbis

La sharing economy. L'economia della condivisione suggerisce che l'ambiente, le conoscenze, l'informazione dovrebbero essere gestite dalle comunità interessate

 Non esistono alternative o scorciatoie. Per uscire dalla crisi occorre innanzitutto creare e sviluppare un'economia policentrica fondata principalmente sull'autogestione dei beni comuni – ovvero dei beni che per loro natura non possono non essere condivisi, come le scienze, Internet, l'informazione, l'ambiente e il territorio, l'aria e l'acqua, la moneta, le reti di comunicazione e di trasporto. Né le forze di mercato né l'intervento pubblico da soli potranno risolvere i problemi che ci hanno portato alla duplice crisi economica ed ecologica: anzi è inevitabile che il mercato e l'intervento pubblico aggravino ulteriormente i problemi già drammatici. Occorrerà piuttosto promuovere l'economia della condivisione e forme di gestione democratica dei beni condivisi da parte delle comunità interessate.
Paradossalmente anche nelle società avanzate si sta riproponendo in forme nuove e originali un problema antico come l'umanità, perché la storia dell'economia inizia con i beni comuni, ovvero con i beni condivisi dalle comunità locali. Attualmente però i commons hanno una dimensione globale oltre che locale. Infatti alcuni beni comuni, come innanzitutto le conoscenze e le risorse ambientali, hanno assunto un'importanza vitale per l'economia e la società globale.
La grande scoperta del premio Nobel per l'economia Elinor Ostrom è che le comunità organizzate possono essere in grado di regolamentare efficacemente l'uso dei beni comuni a vantaggio di tutti. Se si danno autonomamente delle norme e riescono a sanzionare i trasgressori, e se possono svilupparsi senza essere represse e cancellate dallo stato e dalle corporation, le comunità auto-organizzate sono in grado di consolidarsi, adattarsi alle variabilità di contesto e riuscire a salvaguardare nel tempo i beni comuni. Al contrario la privatizzazione dei commons comporta lo spreco di risorse preziose, gravi inefficienze e alla lunga dinamiche non sostenibili. Anche la statalizzazione dei beni pubblici genera gravi inefficienze, burocratismo, privilegi e corruzione, e alla lunga il degrado e la non sostenibilità.
Ostrom centra la sua attenzione sulle comunità autogestite e su una nuova forma di proprietà, quella comunitaria, che si affianca alla proprietà privata e statale. Peter Barnes, imprenditore sociale e profeta dichiarato dell'utopia post-capitalista, fa un passo in avanti decisivo sul piano delle proposte organizzative nel campo dell'economia dei commons. Per Barnes l'economia capitalista espropria e mette a profitto a beneficio di pochi privilegiati i beni comuni, siano essi culturali (come la musica popolare, Internet, le conoscenze scientifiche); sociali (come le istituzioni pubbliche, le scuole e le strade) o naturali (come l'aria, la terra, l'acqua, le frequenze): tuttavia l'economia basata sul profitto, non solo allarga la forbice sociale tra i ricchi e i poveri, ma diventa insostenibile nel tempo.
Il problema consiste nel fatto che il capitalismo sfrutta gratuitamente i beni ambientali, sociali e culturali comuni senza curarsi degli interessi delle comunità e senza neppure pagare prezzi adeguati. Le aziende da un lato si appropriano gratuitamente o a basso prezzo dei commons pregiati (che considerano “esternalità positive”), per esempio il legname delle foreste, mentre dall’altro scaricano sulla società i costi ambientali e sociali, cioè le cosiddette «esternalità negative» legate, per esempio, alla desertificazione del suolo. Da qui la necessità della costituzione di un terzo settore economico no profit autonomo dal mercato e dai governi: il nuovo terzo settore dovrebbe avere la proprietà formale dei commons, prezzarli considerando anche le “esternalità negative” (e quindi per esempio la necessità di rinnovare le risorse), e soprattutto gestirli in un'ottica di lungo periodo a favore delle comunità interessate e del bene comune.
Secondo Barnes, le istituzioni più adatte a gestire i commons sono le fondazioni, ovvero enti privati senza scopo di lucro dedicati a raggiungere un unico obiettivo fissato dal loro statuto, come la salvaguardia e la valorizzazione di un bene comune. Le forme societarie relative alla proprietà condivisa possono però essere molteplici: l'aspetto fondamentale è che le organizzazioni economiche che controllano i commons – siano esse fondazioni o cooperative, o consorzi, o società per azioni no profit, o società miste o altro ancora – vengano gestite in maniera democratica dalle comunità interessate e dagli altri eventuali partner.
La salvaguardia e la valorizzazione dei commons da parte delle società no profit eviterebbe la catastrofe ambientale, sociale e culturale che il capitalismo speculativo spontaneamente genera nella sua corsa dissennata al profitto. È possibile proporre l'istituzione di enti no profit a diversi livelli: locale; regionale; nazionale; globale. Quello di Barnes non è però un sogno a occhi aperti. Internet per esempio è già la principale organizzazione globale no profit, non privata né statale ma gestita direttamente dalla comunità scientifica in collaborazione con gli utenti, i governi e le società private; e le fondazioni governano già il free software, l'open source, Wikipedia, il browser Firefox, e Creative Commons, l'organismo che gestisce i diversi livelli di copyright. Esistono anche numerose fondazioni che salvaguardano i parchi, le foreste e la natura, o che gestiscono beni culturali – come quella che eroga i premi Nobel o la fondazione “Guggenheim”. Queste organizzazioni impiegano i loro patrimoni non per remunerare i proprietari o gli azionisti – come avviene nelle società private – ma per raggiungere lo scopo sociale fissato dal loro statuto.
In Italia, le fondazioni di origine bancaria hanno un ruolo di primaria rilevanza perché controllano i maggiori istituti bancari e finanziano attività preziose nel campo della cultura, della ricerca, della conservazione dei beni artistici, dei servizi sociali. Particolarmente in Italia, le fondazioni hanno, quindi, un ruolo estremamente importante e positivo per quanto riguarda la stabilità del sistema bancario, dei territori e delle comunità civili. Probabilmente si deve alla natura no profit delle fondazioni bancarie il fatto che le banche italiane siano rimaste coinvolte meno delle altre sorelle estere nella speculazione sui derivati. Ed è senz'altro positivo che parte dei profitti realizzati dalle banche siano investiti nella cultura e nel sociale grazie all'attività delle fondazioni. La soluzione alla crisi economica passa anche per la diffusione e il potenziamento delle fondazioni e delle banche cooperative.
Nel campo strategico della conoscenza, in particolare quella finanziata con soldi pubblici, è possibile proporre la creazione di fondazioni costituite da scienziati, ricercatori, università e istituti di ricerca ai diversi livelli, che gestiscano direttamente e autonomamente l'accesso ai brevetti sulle loro invenzioni. Le fondazioni dovrebbero avere l'obbligo di licenziare le loro scoperte a tutti senza discriminazioni, e a prezzi convenienti e accessibili, con l'obiettivo di diffondere le conoscenze e di utilizzare i ricavi per sviluppare ulteriormente le ricerche pubbliche, per esempio sulle energie rinnovabili. Spesso però le istituzioni no profit sono considerate marginali e vengono perfino denigrate e attaccate prendendo a pretesto fallimenti, errori e difetti, semplicemente perché non sono istituzioni di mercato e non rispondono ai criteri ideologici del neoliberismo imperante. Occorrerebbe invece creare le condizioni migliori per promuovere la democrazia e la partecipazione diretta al loro interno, per svilupparle ed estenderle e per metterle al centro della politica economica.
L'economia della condivisione suggerisce che l'ambiente, le conoscenze, l'informazione dovrebbero essere gestite dalle comunità interessate. La sharing economy non ripropone tuttavia l'utopia dell'autogestione dell'economia proposta nel secolo scorso dalla sinistra comunista e socialista. A parte l'esperienza generalmente positiva delle cooperative di lavoratori, l'utopia generosa e nobile dell'autogestione della produzione ha finora avuto esiti a dir poco sfortunati. I consigli operai di gestione, nati durante le diverse crisi del capitalismo in differenti paesi, hanno infatti avuto vita breve, e i soviet del comunismo sono sfociati nella dittatura di partito sulla classe operaia e sulle classi popolari.
La realtà economica e sociale attuale è molto diversa e, per molti aspetti, più positiva: nella società della conoscenza prevalgono infatti, anche numericamente, i knowledge worker, una classe che controlla un mezzo di produzione intangibile ma fondamentale, e che ha, e avrà sempre di più, le competenze e la capacità di gestire i beni comuni più pregiati, le conoscenze, l'informazione e l'ambiente. I knowledge worker rappresentano infatti, nelle economie avanzate, la quota maggioritaria di lavoratori – generalmente oltre il 40 per cento del totale degli occupati –, e hanno elevati livelli di istruzione e le migliori competenze per gestire autonomamente il bene pubblico della conoscenza, tanto più rilevante dal momento che è trasversale a tutta l'attività produttiva. Gli esempi di autogestione dei commons immateriali da parte dei knowledge workers sono ormai numerosi e noti, e li abbiamo già citati: Internet, Wikipedia, il free software e i programmi open source, i progetti di open science. Anche grazie all'attività di studio, di analisi e di denuncia da parte dei knowledge workers, le comunità locali sono sempre più informate e attente relativamente ai problemi legati all'inquinamento, al cambiamento climatico, alle energie “sporche” e non rinnovabili, alla salute pubblica, alla gestione delle risorse territoriali, e alla qualità della vita.
In questo contesto i movimenti dovrebbero esercitare la loro azione politica ed economica perché i governi assegnino prioritariamente alle società no profit i diritti di proprietà dei commons senza cedere invece agli appetiti delle corporations. Lo stato dovrebbe anche finanziare il riacquisto dei commons già ceduti ai privati; e favorire sul piano giuridico, fiscale e amministrativo la creazione e lo sviluppo delle società senza scopo di lucro e del terzo settore no profit, e garantire in ultima istanza lo sviluppo equilibrato dell'economia policentrica. In effetti l'accesso aperto ai beni comuni rappresenta la condizione per un mercato più dinamico e competitivo, e quindi più innovativo, non dominato dai monopoli; e costituisce anche la condizione fondamentale per un intervento pubblico efficace perché controllato dalle comunità e dal basso. Il futuro va verso l'economia policentrica.

Dal sito di "Sbilanciamoci"






La scrittrice Aminata Traorè incontra la città di Padova

Nell'ambito del consueto appuntamento annuale della “Giornata della Cooperazione Internazionale” ,che quest’anno sarà dedicato al tema della sovranità alimentare., arriverà a Padova Aminata Traorè, sociologa, scrittrice, Ministro della ...Cultura del Mali dal 1997 al 2000 e attivista africana.
Il 13 Ottobre, alle ore 21.00 Aminata sarà presente al dibattito “Quando la terra diventa un bene comune: tra democrazia e sviluppo” (Centro Culturale S. Gaetano). L'incontro è organizzato in collaborazione con il Cospe.                                                                                                                 

L’iniziativa continua Venerdì 14 alle ore 15.00 presso la Biblioteca del Centro Diritti Umani con il convegno: "La differenza nella scelta quotidiana. Diritti Umani e Commercio Equo e Solidale: il caso Palestinese", organizzato dal Centro Diritti Umani e la Cooperativa Unicomondo.
Domenica 16 ottobre dalle 15 in poi, un pomeriggio di festa chiuderà il ciclo di incontri: saranno presenti in Piazza delle Erbe gli stand delle associazioni di cooperazione internazionale e alle ore 17.30 si terrà lo spettacolo “Mondo nuovo. Essere, vivere, scegliere”, reading di Filippo Tognazzo e musiche a cura di Giorgio Gobbo e Sergio Marchesini della Piccola Bottega Baltazar.



mercoledì 28 settembre 2011

Il 27 settembre è l'Overshoot Day: l'umanità ha esaurito le risorse che la natura può fornire in un anno in maniera sostenibile

SUL SOVRACONSUMO DELL'UMANITA'

I calcoli preliminari del 2011 del Global Footprint Network mostrano che stiamo usando le risorse ad un tasso che richiederebbe tra 1,2 e 1,5 pianeti per restare in un ambito sostenibile. Il nostro studio ci mostra incamminati verso la necessità di due pianeti ben prima della metà del secolo.


(OAKLAND, CA, USA) – L'umanità sta sorpassando il budget naturale a sua disposizione per questo anno, e ora è in rosso, secondo i dati del Global Footprint Network, una organizzazione di ricerca internazionale con uffici in California e a Ginevra.

Come un estratto conto di banca riporta le entrate e le uscite, il Global Footprint Network (GFN) tiene conto del fabbisogno umano di natura (per esempio per fornire cibo, produrre materie prime e assorbire CO2) rispetto alla capacità della natura di rigenerare queste risorse e assorbire i rifiuti. I calcoli del GFN dimostrano che - approssimativamente in nove mesi - il fabbisogno di risorse dell'umanità ha sorpassato il livello che il pianeta è in grado di fornire in modo sostenibile per questo anno.
Per la restante parte dell'anno, sosterremo il nostro deficit ecologico esaurendo le riserve naturali e accumulando CO2 nell'atmosfera. “E' come se spendeste il vostro salario annuale in nove mesi, cioè tre mesi prima che l'anno sia finito e consumaste i risparmi anno dopo anno. Abbastanza in fretta finireste il vostro capitale” ha detto Mathis Wackernagel Presidente del Global Footprint Network.
Il fatto di “spendere” al di là delle nostre possibilità è diventato un circolo vizioso, nel quale noi sprofondiamo sempre più alla stessa velocità con cui il nostro fabbisogno di natura aumenta. “Dalla crescita rapida dei prezzi del cibo agli esplosivi effetti del cambiamento climatico, le nostre economie stanno iniziando a confrontarsi con la realtà di anni di consumi al di sopra delle possibilità” ha detto Mathis Wackernagel. “Se vogliamo mantenere società stabili e vite dignitose, non possiamo continuare a far allargare il divario tra ciò che la natura è capace di fornire e ciò che le nostre infrastrutture, economie e stili di vita richiedono”.

Andare incontro ai bisogni di 7 miliardi di persone

Per una gran parte della storia, l'umanità ha usato i “servizi naturali” per costruire città e strade, rifornirsi di cibo e produrre manufatti e assorbire la CO2 generata dalle attività umane ad una velocità che era ben al di dentro di ciò che la natura era in grado di rigenerare. Ma, in un certo giorno del 1970, abbiamo superato la soglia critica. La richiesta di risorse alla natura da parte dell'umanità ha cominciato a superare in velocità ciò che poteva essere prodotto in modo rinnovabile, un fenomeno conosciuto come “sovraconsumo” (overshoot).


Questo anno, l'Earth Overshoot Day arriva mentre le Nazioni Unite sta prevedendo che la popolazione umana raggiunga i 7 miliardi in un giorno verso la fine ottobre. L'andamento attuale delle risorse pone con insistenza una domanda: come faremo ad andare incontro ai bisogni di una popolazione crescente? A supportare l'aumentato consumo, visto che milioni di persone delle economie emergenti raggiungono le nutrite fila della classe media? A sostenere i due miliardi di persone attualmente in vita che mancano dell'accesso a una quantità sufficiente di risorse per i bisogni di base?
“Permettere di vivere buone vite a tutti gli abitanti del mondo è certamente possibile – ma non sarà possibile usando lo sviluppo ad alta intensità di risorse e i modelli di crescita che abbiamo adottato nel passato,” dice Juan Carlos Morales Direttore del Research and Standards presso il Global Footprint Network. “Ciò significa cercare nuovi modelli di progresso e di prosperità che limitino la domanda di beni ecologici. Ciò significa anche conservare le risorse che abbiamo risparmiato come una continua fonte di benessere piuttosto che liquidarle subito per fare cassa.”
Abbiamo ridotto l' Overshoot globale?
I calcoli del Global Footprint Network fatti lo scorso anno circa l'impronta ecologica e la biocapacità hanno fatto posizionare l'Earth Overshoot Day alcune settimane prima rispetto a quello di questo anno. Questo ha fatto nascere la domanda circa una diminuzione dell'Overshoot.

L'Overshoot e l'economia globale

Contrariamente alla recessione globale, l'andamento delle risorse indica che sin da ottobre del 2008, la domanda di risorse dell'umanità è stata in crescita, anche se meno velocemente dei primi otto anni del millennio.


Ci sono sempre più prove che il rapido crescere dei costi delle risorse, in particolare cibo ed energia, abbia giocato un ruolo di primo piano nell'accelerare se non nel far esplodere, l'attuale flessione mondiale. Ora stiamo tentando di fare una svolta creando posti di lavoro e stabilizzando le nostre economie. Ma ciò dipende da uno stabile apporto di risorse.


“Se la limitazione delle risorse si rafforza ancora, vivremo la situazione di quando si tenta di risalire su una scala mobile che scende” ha detto Mathis Wackernagel. “Ora che tentiamo di ricostruire le nostre economie sane e robuste, è proprio il momento di proporre delle modalità che siano valide e adatte per il futuro. Un recupero di lungo termine avrà successo e sarà durevole solo se avviene contemporaneamente ad una sistematica riduzione della nostra dipendenza dalle risorse.


E' possibile invertire la rotta. Il Global Footprint Network e la rete di partner stanno lavorando con i singoli, le organizzazioni e i governi del mondo per far prendere decisioni che siano allineate col la realtà ecologica – decisioni che possano contribuire a colmare il deficit del bilancio ecologico e portare ad un futuro prospero a dispetto del mutevole e impegnativo andamento delle risorse.




Una crescita senza benessere

Guido Viale, da il manifesto, 25 settembre 2011





La crescita (che non c'è e, dove c'era, svanisce) è trattata sempre più come un obbligo. Ma quella di cui si parla è solo una crescita contabile (del Pil), finalizzata a riequilibrare i rapporti tra deficit - e debito - e Pil con un aumento del denominatore (Pil) e non solo con una riduzione dei numeratori (deficit e debito). Il tutto soprattutto per «rassicurare i mercati». Dalla crescita ci si attende anche un aumento dei redditi tassabili (non tutti i redditi lo sono, o lo sono nella stessa misura: alcuni, per legge; altri, per violazione della legge) e, quindi, delle entrate dello Stato, rendendo più facile il pareggio di bilancio (assurto al rango di obbligo costituzionale) e, forse, anche una riduzione del debito (anch'essa resa obbligatoria dal cosiddetto patto euro-plus). Tuttavia meno spesa e più entrate non bastano a garantire il pareggio; non è detto che l'avanzo primario programmato (il surplus delle entrate sulle spese) sia compatibile con l'andamento dei tassi. Così gli interessi si accumulano in nuovo debito, una spirale, in contesti di deflazione come questo, senza fine.
  La Grecia è da tempo in stato fallimentare (default): la sua economia non potrà più crescere per decenni; meno che mai in misura sufficiente ad azzerare il deficit o ripagare anche solo in parte il debito. Perché, allora, economisti e statisti non ne prendono atto? In parte perché non sanno che fare (era una sopravvenienza prevedibile, ma mai presa in considerazione); in parte per rapinarla; pensioni, salari, posti di lavoro, servizi pubblici, isole, riserve auree: tutto quello di cui ci si può appropriare (privatizzandolo) va preso prima di ammettere l'irreversibilità della situazione. La posizione dell'Italia non è molto diversa anche se il suo tessuto industriale è più robusto: una crescita sufficiente a pareggiare i conti non arriverà più; soprattutto strangolando così la sua economia. Ma qui i beni da saccheggiare - in barba ai risultati dei referendum - sono più succosi, mentre una presa d'atto del fallimento farebbe saltare, insieme all'euro, anche l'Unione europea. Per questo il gioco è destinato a durare più a lungo. Se però un governo ne prendesse atto, annunciando un default concordato - e selettivo: per colpire meno i piccoli risparmiatori - l'Europa correrebbe ai ripari e gli eurobond salterebbero fuori dall'oggi al domani. Ma così, dicono gli economisti, si blocca il circuito bancario e si arresta tutto il processo economico.
  Certo le cose non sarebbero facili; ma non lo sono, per i più, neanche ora. Però il circuito bancario si era già bloccato dopo il fallimento Lehman Brothers, e sono intervenuti gli Stati nazionalizzando di fatto, per un po', le banche. Succederebbe di nuovo; e anche senza uscire dall'Euro, perché a intervenire dovrebbe essere la Bce.
  Quella spirale del debito non è una novità: nella seconda metà del secolo scorso quasi tutti i paesi del Sud del mondo si sono indebitati per promuovere una crescita (allora si chiamava "sviluppo") che non è mai venuta. Poi, non potendo ripagare il servizio del debito, sono stati tutti presi sotto tutela dal Fmi, che ha loro imposto privatizzazioni e riduzioni di spesa analoghe a quelle imposte oggi dalla Bce e dal Fmi ai paesi cosiddetti Piigs: con la conseguenza di avvitare sempre più la spirale del debito. La letterina (segreta) che la Bce ha spedito al governo italiano per dirgli che cosa deve fare quei paesi la conoscono bene: ne hanno ricevute a bizzeffe, e sono andati sempre peggio. Viceversa, le economie cosiddette emergenti sono quelle che avevano scelto di non indebitarsi, o che ne sono uscite con un default: cioè decidendo di non pagare - in parte - il loro debito.
  La crescita di cui parlano gli economisti - e di cui blaterano tanti politici - è la ripresa, accelerata, del meccanismo che ha governato il mondo occidentale nella seconda metà del secolo scorso e che oggi torna a operare, tra l'invidia generale, nei paesi cosiddetti emergenti (i quali hanno ritmi di sviluppo accelerati solo perché sono partiti da zero, o quasi); mentre da noi quel meccanismo è ormai irripetibile anche in paesi considerati locomotive del mondo. Vorrebbero tornare a moltiplicare la produzione di automobili, di elettrodomestici, di gadget elettronici, in mercati ormai saturi e gravati da eccesso di capacità (vedi il fiasco di Marchionne); di moda e di articoli di lusso in un mondo in cui i ricchi non sanno più che cosa comprare perché hanno già tutto e di più (mentre le produzioni a basso costo sono state delocalizzate in paesi emergenti; per cui ogni eventuale, quanto improbabile, aumento dei redditi da lavoro non avrebbe comunque conseguenze sull'occupazione in Occidente); di turismo in ambienti naturali sempre più degradati e - soprattutto: questa dovrebbe essere la "molla" della ripresa - di Grandi opere. Si tratta di un modello di impresa fondato su finanziamenti pubblici (spesso contrabbandati come finanza di progetto); su catene senza fine di subappalti (con conseguente corruzione, evasione fiscale, caporalato e mafia: non sono guai solo italiani); guasti irreversibili ai territori; inganni e violenze sulle popolazioni locali per imporre l'opera per poi, alla fine dei lavori, destinare all'abbandono territori e tessuti sociali degradati. Il Tav in Val di Susa ne è il paradigma. Per la protezione dell'ambiente, invece, niente. Dicono che per favorire il ritorno alla crescita va - temporaneamente - sospesa. Così si succedono i summit mondiali che non decidono niente, mentre il pianeta corre verso il collasso. Per l'equità - tra paesi ricchi e paesi poveri; tra ricchi e poveri di uno stesso paese; tra l'oggi e le generazioni future - meno ancora.
  La crescita per fare fronte al debito non riguarda quindi né l'occupazione (c'è da tempo un disaccoppiamento tra occupazione e aumento del Pil, dei fatturati e dei profitti); né la qualità del lavoro (è sempre più precario in tutto il mondo e si investe sempre meno in formazione); né i redditi da lavoro diretti o differiti (le pensioni); né il benessere delle comunità, messo sotto scacco dal degrado ambientale, dal taglio dei servizi e del welfare, dall'aumento delle persone disoccupate, scoraggiate o emarginate (sospinte sempre più numerose sotto la soglia della povertà); né dalla distruzione della socialità e della socievolezza. Infine, la crescita affidata ai meccanismi di mercato aborre dalle politiche industriali; e se le propone o le invoca, è solo per dare una spinta - con incentivi, sgravi fiscali, tassi di interesse sotto zero o investimenti pubblici in Grandi opere - a un meccanismo che poi dovrebbe andare avanti da sé: non ci sono obiettivi generali da perseguire, perché deve essere il mercato a selezionare quelli che corrispondono alle propensioni del consumatore (esaltato come sovrano quanto più viene soggiogato dai meccanismi della pubblicità e della moda); non ci sono problemi di governance - intesa come composizione degli interessi e partecipazione dei lavoratori e delle comunità alla gestione delle attività che si svolgono su un territorio - perché è l'impresa che deve avere il controllo assoluto su di esse (come sostiene Marchionne tra gli applausi generali). Le privatizzazioni sono la traduzione di questa logica: il trasferimento della sovranità da quel che resta degli istituti della democrazia rappresentativa al dispotismo di imprese sempre più grandi, potenti, centralizzate, lontane dai territori e dalle comunità. Anche questa è una spirale senza fine: più si smantella quanto di pubblico, condiviso, egualitario è stato conquistato negli anni, più si imputa la mancanza di risultati al fatto che non si è ancora smantellato abbastanza. Il liberismo è un dogma senza possibilità di verifiche praticato da una setta incapace di tornare sui suoi passi.
Per far fronte alla crisi - che è innanzitutto crisi delle condizioni di vità della maggioranza della popolazione - valorizzando le risorse che territori, comunità e singoli sono in grado di mettere in campo - ci vuole invece una vera politica economica e industriale; che oggi non può che essere un programma di riconversione ecologica di consumi e produzioni, tra loro strettamente interconnessi. Non c'è spazio - né ambientale, né economico, né sociale - per rilanciare i consumi individuali: generazione ed efficienza energetiche, mobilità sostenibile, agricoltura e alimentazione a km0, cura del territorio, circolazione dei saperi e dell'informazione (e non della patonza) non possono che essere imprese condivise, portate avanti congiuntamente dai lavoratori, dalle loro organizzazioni, dalle iniziative comunitarie, dalle amministrazioni locali, dalle imprese legate o che intendono legarsi a un territorio di riferimento (rime tra le quali, i servizi pubblici locali: non a caso sotto attavvo). Le produzioni che hanno un avvenire, e per questo anche un mercato vero, sono quelle che corrispondono a questi orientamenti; ad esse dovrebbero essere riservate tutte le risorse finanziarie impiantistiche, tecniche e soprattutto umane che è possibile mobilitare.
  Questo è anche un preciso indirizzo di governance per prendere in carico la conversione ecologica. Sostituire un'economia fondata sul consumo individuale e compulsivo con un sistema orientato al consumo condiviso (che non vuol dire collettivo o omologato: la condivisione esige attenzione per le differenze e per la loro realizzazione) non può essere programmata in modo verticistico; né gestita con i meccanismi autoritari delle Grandi opere. La conversione ecologica è un processo decentrato, diffuso, differenziato sulla base delle esigenze e delle risorse di ogni territorio, integrato e coordinato da reti di rapporti consensuali, basato sulla valorizzazione di tutti i saperi disponibili. Una politica economica e industriale che si ponga questi obiettivi può anche affrontare, in modo selettivo e programmato, l'azzardo di un default: per non destinare più le risorse disponibili al pozzo senza fondo del debito pubblico. Ma certo questo richiede l'esautoramento di gran parte delle attuali classi dirigenti (e di molti economisti). L'alternativa non è dunque tra crescita e decrescita, ma tra cose da fare e cose da non fare più.



lunedì 26 settembre 2011

Odori ad Este: che fare?



COMUNICATO STAMPA



 Mi rincresce annusare ogni mattina e, spesso, sino a tarda mattinata, odori vari, spesso nauseabondi, che imperversano per Este ammorbando l'aria e mettendo a dura prova tutti, cittadini ,lavoratori, studenti. Una situazione che Este si era quasi dimenticata per la sensibile riduzione registrata negli ultimi due anni del fastidioso fenomeno. Non certo merito mio ma del lavoro deciso assieme al sindaco Giancarlo Piva nella sua precedente amministrazione. A ridurli non solo l'indagine sulle percezioni olfattive degli estensi ma anche un costante e pressante controllo sulle diverse e purtroppo numerose fonti che provocano gli odori. Onde evitare che i risultati di una tale mole di lavoro vengano vanificati invito l'attuale amministrazione a riprendere il precedente metodo di lavoro. Con i rappresentanti di categoria degli allevatori si era arrivati ad un accordo condiviso in base al quale le stesse categorie dovevano controllare e farsi portavoce in assemblea con i loro associati affinchè rispettassero un protocollo per la gestione delle lettiere. Ripetiamo l'invito come amministrazione e facciamo presente che qualora l'odore persista l'amministrazione può anche ricorrere, quale estrema ratio, alla chiusura degli allevamenti individuati come colpevoli . Procediamo ad un controllo più serrato, laddove possibile, di chi versa la pollina nei campi( ed in questi giorni sono molti) affinchè osservino una ordinanza del Comune che li obbliga a coprire con terra il versamento in tempi brevissimi. IN quanto alla Sesa velocizziamo la decisione di spostare di 700 metri il capannone che dovrà accogliere al chiuso il compost. Non risolveremo il problema ma certamente lo ridurremo in modo tale da far ritornare Este ad una condizione vivibile.



Beatrice Andreose


ex assessore all'ambiente di Este





Un'altra scuola è possibile



Pubblicato da comitatonogelmini, 26 settembre 2011


di Corrado Giustiniani

da L’Espresso









Le classi italiane sono sempre più multiculturali: i figli degli immigrati sono già 750 mila, tra studenti e scolari, provenienti per lo più dalla Romania, dall’Albania dal Marocco e dalla Cina. Peccato che la Gelmini abbia tagliato i 20 milioni di euro per favorire l’apprendimento dell’italiano

In Val Maira, provincia di Cuneo, gli alunni che meglio degli altri apprendono l’occitano, l’antica lingua romanza citata da Dante nel “De vulgari eloquentia”, sono quelli della Costa d’Avorio. “Sono francofoni e questo li aiuta. La loro è nettamente la migliore pronuncia”, notano compiaciute Gianna Bianco e Sandra Salviti, maestre della scuola elementare di Dronero dove, per conservare la tradizione, lo studio dell’occitano è obbligatorio. Poco più in là, a Luserna San Giovanni, in Val Pellice, una delle mete degli scalpellini cinesi, venuti a estrarre la pietra bargiolina che per Leonardo da Vinci era paragonabile al marmo di Carrara, si è da tempo celebrato il primo “cento centesimi” alla maturità di una ragazza dello Zhejiang, di nome Fang Xiu. Nella quinta elementare dell’Istituto comprensivo Sampierdarena 2, di Genova, c’è un gruppo di bambini che segue un corso volontario di latino: quattro italiani e 15 stranieri, per metà ecuadoregni, alle prese con Fedro in lingua originale. “Ma è facile come l’italiano”, esclamano sorpresi gli alunni di questa classe di eccellenza.
  Nel Veneto che non ti aspetti, 650 scuole si sono organizzate in 47 reti, per scambiarsi idee, esperienze e personale con l’obiettivo di integrare meglio gli alunni stranieri. Al liceo Manzoni di Milano il cinese lo imparano i ragazzi italiani, dal 2009 e per quattro ore la settimana, opportunità ormai offerta da un centinaio di altre scuole sparse lungo lo Stivale. All’Istituto professionale Francesco Datini di Prato, la scuola dove si diplomò Roberto Benigni nella città che ospita la più grande comunità cinese d’Europa (41 mila persone) c’è un professore di italiano e storia, Luciano Luongo, detto “Marcopolo”, che da autodidatta ha imparato il cinese, perfezionandolo poi con cinque viaggi in Cina, e ha organizzato stage di studenti nelle scuole di Wenzhou, opportunamente gemellata con Prato. All’Istituto Daniele Manin di Roma, infine, il rappresentante dei genitori della scuola dell’infanzia si chiama Silvio, nome perfetto per la politica. Soltanto che lui è di nazionalità rumena.
  Sono alcune tappe di un viaggio avvincente nelle scuole multiculturali di tutta Italia. Lo ha compiuto e trasformato in libro Vinicio Ongini, maestro per vent’anni, autore di saggi e testi per bambini e attualmente esperto dell’Ufficio integrazione del ministero dell’Istruzione. Ha per titolo “Noi domani”, lo pubblica Laterza, ed esce in questi giorni in coincidenza con l’avvio del nuovo anno scolastico, proprio per trasferire agli operatori della scuola e ai genitori stessi una spinta di ottimismo e di entusiasmo su un tema – i figli degli immigrati nella nostra scuola – solitamente trattato con i paraocchi del pregiudizio ideologico.
Ma quanti sono i ragazzi stranieri all’avvio del nuovo anno scolastico 2011-2012?
Il dato statistico non è ovviamente ancora disponibile, i conti si fanno a gennaio, ma una stima più che attendibile sì: sono circa 750 mila, secondo Ongini. “In ogni caso, non si pubblica più da due anni l’indagine nazionale del ministero dell’Istruzione sugli alunni con cittadinanza non italiana. E invece abbiamo bisogno come il pane di quegli indicatori annuali, per capire i nodi emergenti e affrontarli“, invoca Graziella Giovannini, che insegna Sociologia dell’educazione all’Università di Bologna. Lo aveva chiesto anche alla Camera, nel corso dell’indagine parlamentare sugli alunni stranieri a scuola, conclusa a gennaio di quest’anno. Ad ascoltarla c’era il presidente Gianfranco Fini, ma non il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini.
Sono dunque 750 mila circa, i figli degli immigrati scolari e studenti. Tanti o pochi?
Dipende dai punti di vista. Tanti se si pensa che vent’anni fa, anno scolastico 1991/1992, erano appena 32.500, e ciò dimostra la straordinaria velocità con cui la scuola italiana ha dovuto reagire a correnti migratorie di intensità paragonabile soltanto a quelle subite dalla Spagna. Tanti, ancora, se si tiene conto che in Francia, Paese che riceve immigrati da centocinquant’anni, gli alunni di nazionalità straniera sono poco meno di 500 mila. Tanti, infine, rispetto alle magre risorse economiche e umane messe a disposizione per l’integrazione dal ministero: l’ultima beffa è quella che ha accompagnato la circolare numero 2 del 2010, voluta dalla Gelmini per porre un tetto del 30 per cento agli alunni stranieri di ciascuna classe. Il ministro aveva promesso che sarebbero arrivati insieme 20 milioni di euro per favorire l’apprendimento dell’italiano, che però nessuno ha visto.



domenica 25 settembre 2011

Il tunnel della Gelmini: 730 km sotto terra!


                                                                  

Caro benzina: come averla a metà prezzo

   E'importantissimo piegare le compagnie petrolifere che alzano in continuazione il prezzo!! (gli americani si sono incazzati perché gli si è alzata la benzina a 0.75€ per 5 LITRI !!!) e noi paghiamo 1.50€ a litro. . ma siamo impazziti???!!! COME FARE???  Benzina a metà prezzo? Diamoci da fare... Siamo venuti a sapere di un’azione comune per esercitare il nostro potere nei confronti delle compagnie petrolifere. Si sente dire che la benzina aumenterà ancora fino a 1.80 Euro al litro. UNITI possiamo far abbassare il prezzo muovendoci insieme, in modo intelligente e solidale.

Ecco come.... La parola d’ordine è ’colpire il portafoglio delle compagnie senza lederci da soli’.
Posta l’idea che non comprare la benzina in un determinato giorno ha fatto ridere le compagnie (sanno benissimo che, per noi,si tratta solo di un pieno differito, perché alla fine ne abbiamo bisogno!), c’è un sistema che invece li farà ridere pochissimo, purché si agisca in tanti. Petrolieri e l’OPEC ci hanno condizionati a credere che un prezzo che varia da 0,95 e 1 Euro al litro sia un buon prezzo, ma noi possi far loro scoprire che un pr
ezzo ragionevole anche per loro è circa la metà. I consumatori possono incidere moltissimo sulle politiche delle aziende: bisogna usare il potere che abbiamo.

La proposta è che da qui alla fine dell’anno non si compri più benzina dalle 2 più grosse compagnie, SHELL ed ESSO, che peraltro ormai formano un’unica compagnia. Se non venderanno più benzina (o ne venderanno molta meno), saranno obbligate a calare i prezzi. Se queste due compagnie caleranno i prezzi, le altre dovranno per forza adeguarsi. Per farcela, però dobbiamo essere milioni di NON-clienti di Esso e Shell, in tutto il mondo.
 E’ certo che, ad agire così, non abbiamo niente da perdere, non vi pare? Chi se ne frega per un po’ di bollini e regali e baggianate che ci vincolano a queste compagnie. Coraggio, diamoci da fare!!!