martedì 8 marzo 2011
lunedì 7 marzo 2011
Paesaggio ed energia
Il Protocollo di Kyoto e la Convenzione Europea sul Paesaggio di Firenze hanno entrambe poco più di dieci anni. Ciascuno per proprio conto ha reso evidente e tradotto in indirizzi e azioni antecedenti consapevolezze culturali che vedevano nel contrasto allo sperpero delle risorse energetiche non rinnovabili, ai cambiamenti climatici e al saccheggio territoriale gli elementi significativi, anzi fondativi, di un futuro accettabile per il Pianeta e i suoi abitanti.
Oggi è però evidente che interessi che dovrebbero convergere si ritrovano troppo frequentemente su fronti contrapposti. Da una parte i promotori delle energie rinnovabili, dall’altra i difensori del paesaggio: antiche alleanze che facevano parte del campo comune della tutela e della valorizzazione delle risorse naturali e culturali si rompono. Non si tratta di scegliere da che parte stare: le ragioni di entrambi sono fondate. Finitezza delle fonti non rinnovabili, impatti climatici, inquinamenti ambientali sostengono quelle di chi si trova dalla parte del solare, dell’eolico e delle biomasse. Rispetto delle identità locali, valori culturali, ecologici e naturalistici, agricoli e turistici reggono le ragioni dei difensori del paesaggio. Da una parte e dall’altra, ragioni legittime che riguardano insieme le prospettive economiche, la creazione di posti di lavoro, la compatibilità etica, la soddisfazione culturale. È evidente che si tratta di ricomporre una frattura e se non è accettabile la distruzione del paesaggio (bene fondamentale della Repubblica, ricorda l’art.9 della Costituzione), non lo è neanche che il futuro delle energie rinnovabili sia compromesso non solo dall’incombenza della criminalità mafiosa sui parchi eolici del Sud, dagli interessi spregiudicati del business drogato dagli incentivi statali, dall’incapacità pianificatrice degli amministratori locali, ma anche da chi ritiene il paesaggio immodificabile quando, al contrario, è soggetto, essendo il risultato della storia sulla natura, a continui cambiamenti, da governare così come la diffusione delle energie rinnovabili.
La ricomposizione degli interessi e delle politiche è possibile a partire dalla constatazione che in Italia c’è abbondanza di sole e di vento ma non di territorio. Ci sono, quindi, le condizioni primarie per la diffusione auspicata delle rinnovabili, purché avvenga all’interno di regole rigorose che salvaguardino la qualità di un bene, il paesaggio, di cui siamo ricchi in ragione dei caratteri eccezionali della natura e della storia nazionale che insieme lo definiscono. Nessun Paese ha tale diversità di paesaggi: la penisola che si allunga al centro del Mediterraneo è il luogo geometrico della storia più antica e della maggiore variabilità ecosistemica, vi s’incontrano tre continenti che né il mare, mai troppo vasto, né le montagne, mai realmente invalicabili, hanno diviso e dove la diversità dei caratteri ambientali, la grande ricchezza biologica, l’incontro millenario con le più importanti civiltà agrarie e il loro patrimonio di piante, animali, tecniche, costumi e rapporti sociali hanno determinato l’affermarsi di una pluralità di paesaggi, spesso opposti per la contrapposizione degli elementi che li definiscono. Non esiste un paesaggio italiano, ne esistono mille, ma molti di essi sono minacciati, come suggeriscono i dati riguardanti i cambiamenti dell’uso del suolo. In Italia cresce rapidamente la superficie urbanizzata (secondo i dati Corine Land Cover nel decennio 1990-2000 su oltre 900 km2, e il trend nel decennio successivo non è certo cambiato), diminuiscono le superfici agricole (1.400 km2) e crescono di 835 km2 i boschi (cosi li definisce la statistica, ma spesso si tratta di superfici avviate da incerti processi di rinaturalizzazione all’instabilità e al degrado). Gli abbandoni agricoli, per evidenti ragioni legate a difficoltà d’intensificazione produttiva (carenza d’infrastrutture, difficoltà di meccanizzazione,…) e alle opportunità offerte dai centri urbani, sono più frequenti in montagna e in alta collina dove la SAU (Superficie Agricola Utilizzata) è diminuita tra il 1990 e il 2005 del 14%, a vantaggio dei “boschi”: un’intensità di abbandono doppia rispetto alla pianura nella quale l’urbanizzazione, le infrastrutture, il trionfo della monocoltura agricola hanno travolto i paesaggi storici d’interesse culturale e ambientale.
Il paesaggio sopravvissuto all’industrializzazione dell’agricoltura, all’urbanizzazione, all’abbandono della montagna, il paesaggio variamente definito storico, tradizionale, culturale è ben di più di uno spazio produttivo o di solo valore estetico. Quando per produrre 1 MW attraverso il
fotovoltaico si sottraggono 2 ettari questi non sono solo qualche centinaio di quintali di pannocchie di mais o di ettolitri di vino in meno, perché il paesaggio agrario non è riproducibile né globalizzabile, proprio perché figlio della natura e della storia (non possiamo ricreare, se non negli ecomusei, il paesaggio della coltura promiscua né, tanto meno, importarlo dalla Cina!) ed è sempre multifunzionale. Ricorda la Convenzione Europea che «svolge importanti funzioni d’interesse generale, sul piano culturale, ecologico, ambientale e sociale e costituisce una risorsa favorevole all'attività economica, e che, se salvaguardato, gestito e pianificato in modo adeguato, può contribuire alla creazione di posti di lavoro».
Il patrimonio italiano di paesaggi d’interesse naturalistico, produttivo - agrario e culturale è una risorsa straordinaria, va difesa e valorizzata. Da esso si ottengono produzioni di alta qualità e con caratteri di tipicità territoriale e nello stesso tempo si salvaguardano equilibri ambientali primari (quelli, ad esempio, derivanti dalla difesa del suolo e dalla regolazione del ciclo dell’acqua), si conserva la biodiversità specifica, intraspecifica ed ecosistemica e si mantiene funzionale il mosaico ecologico (lo scambio di materia, energia, organismi) formato da sistemi agrari e seminaturali di diversa tipologia. Molti paesaggi, soprattutto se tradizionali, sono determinati da sistemi “biologici” che ricorrono a risorse e processi endogeni (fotosintesi, fissazione dell’azoto atmosferico, controllo biologico,…) risultando autonomi dal punto di vista energetico, produttivi in termini di reddito, gradevoli in termini estetici e di funzionalità ecologica. A questi valori si aggiungono quelli propri dei beni culturali anche con positivi riflessi in termini di valorizzazione economica come è facilmente dimostrabile dal successo dell’agriturismo, degli itinerari enogastronomici, dal valore raggiunto da terreni e manufatti nelle zone d’interesse paesaggistico. Non ultimo, conservano nella biomassa e nella sostanza organica del suolo grandi quantità di carbonio ridotto sottratte all’atmosfera e all’incremento dell’effetto serra.
Sono funzioni e valori compatibili con le energie rinnovabili soprattutto quando esse assumono l’aspetto diffuso che è proprio nei caratteri della risorsa (il sole, il vento) che li attiva e non si concentrano in porzioni ristrette di territorio e quando si considerino anche gli equilibri ecosistemici e i bilanci energetici, del carbonio e dell’acqua; bilanci che se verificati turberebbero i sogni e le certezze dei sostenitori di molte energy crops. La concentrazione – paradossale rispetto alla diffusione territoriale di sole e vento - nei parchi eolici aggrappati ai crinali di una montagna o nelle fattorie solari risponde a criteri di economicità operativa e a necessità di ridurre i costi di produzione, ma non giustifica né gli scempi delle montagne meridionali, né la nascita di solar latifundia, come qualcuno chiama le grandi fattorie fotovoltaiche “a terra” arrivando a evocare un brutto passato piuttosto che un futuro accettabile.
Invocare la difesa del paesaggio per fermare la diffusione delle rinnovabili, limitandosi ad auspicarne la presenza esclusivamente “sui tetti” o su aree degradate non è sufficiente se solo si ha evidenza del futuro energetico e climatico. Per un futuro compatibile con le necessità, i desideri e i sogni bisogna salvaguardare il paesaggio e diffondere le rinnovabili. Su quale strada avviarsi lo dice la Convenzione sul Paesaggio quando considera che «le evoluzioni delle tecniche di produzione agricola, forestale, industriale e pianificazione mineraria e delle prassi in materia di pianificazione territoriale, urbanistica, trasporti, reti, turismo e svaghi e, più generalmente, i cambiamenti economici mondiali continuano, in molti casi, ad accelerare le trasformazioni dei paesaggi». La trasformazione è insita nel concetto stesso di paesaggio e i paesaggi dell’energia sono via via mutati: montagne disboscate, territori ammorbati dalle polveri del carbone, tralicci, oleodotti e raffinerie, dighe, fino ai paesaggi mostruosi di Chernobyl. Che tra paesaggio ed energia la relazione sia stretta lo sapevano bene gli agricoltori della policoltura che disegnavano il loro campo, attraverso sistemazioni del terreno, rotazioni, avvicendamenti, colture promiscue, in funzione della massimizzazione dell’apporto energetico fotosintetico e della riproducibilità dei fattori produttivi (suolo, acqua). Per la loro fondante multifunzionalità, equilibrata in termini ecologici, estetici, etici, i paesaggi tradizionali vanno difesi e valorizzati (è recente la pubblicazione di un Catalogo Nazionale da parte del Ministero delle Politiche Agricole) e la diffusione delle energie rinnovabili non può non tenere conto di essi come dei vincoli che derivano dal patrimonio naturale (Parchi, Riserve, zone SIC e ZPS) e culturale espressi nei piani
paesistici laddove esistono o sono in vigore. I nuovi paesaggi dell’energia vanno pianificati: non lasciati alle scelte delle industrie, alla disperazione di agricoltori in bolletta, all’incapacità gestionale degli amministratori locali. Vanno progettati nuovi paesaggi e nuove architetture. Va potenziata la ricerca, dando risposte vere agli agricoltori che si aspettano serre coperte da pannelli che non sottraggono il sole alle colture che dovrebbero far crescere e colture energetiche che non abbiano bisogno di acqua, fertilizzanti e macchine in quantità tali da richiedere più energia di quanta producano. I nuovi paesaggi, perché abbiano successo, vanno pensati e realizzati in concorso con chi li vive e li usa (ricorda la Convenzione Europea che i paesaggi sono tali in quanto «percepiti dalle popolazioni»). La diffusione senza regole dei parchi eolici o del solare “a terra” solleva invece conflitti che frenano il necessario sviluppo delle rinnovabili. Conflitti che riguardano il mosaico paesaggistico e le sue funzioni con la diffusione di aree industriali (tali sono i parchi eolici e solari) che interrompono flussi e relazioni necessarie agli equilibri ambientali e culturali che non si risolvono né aggrappandosi solo ai valori economici (“l’incubo del contabile”, lo definiva Keynes ritenendo che «distruggiamo le campagne perché le bellezze naturali non ci danno alcun dividendo») né appellandosi allo slogan della “bellezza che salverà il mondo”. Se non altro perché Dostoevskij, che ne sarebbe l’inconsapevole autore, si era in realtà posto (L’idiota) una domanda: «È vero, principe, che una volta avete detto che il mondo sarà salvato dalla bellezza?». Metteva in gioco l’etica, quella dei comportamenti dell’uomo verso la natura e verso la storia, quindi verso il paesaggio.
lunedì 28 febbraio 2011
domenica 27 febbraio 2011
REGIONE VENETO MATRIGNA
COMUNICATO STAMPA
ESTE- La Lega Nord predica bene e razzola sempre male.
Speravamo tutti che l'impianto di pollina chiesto dalla ditta Menesello a Motta fosse all'interno dell'emendamento alla legge finanziaria veneta approvato qualche giorno fa dal consiglio regionale che prevedeva una moratoria, almeno sino al 31 dicembre prossimo, per i progetti già presentati per impianti a biomassa superiori ai 500 KW.
Ora il consigliere leghista Santino Bozza denuncia lo scenario più inquietante che si potesse prevedere: ossia che la giunta guidata da Luca Zaia martedì prossimo possa approvare la richiesta del privato contro gli interessi, ben rappresentati dall'amministrazione di Este, dei cittadini dell'intera area.
Se arriverà il permesso all'impianto, di fatto un inceneritore alle porte di Este, sarà una decisione politica di cui la Lega Nord dovrà assumersi tutte le responsabilità.
A nulla valgono le grida di allarme del consigliere regionale Santino Bozza ed assumono i toni della farsa le grida della parlamentare leghista Paola Goisis che parla tanto ma poi, purtroppo in questo caso, non garantisce nulla al suo territorio.
Non lo ha garantito quando in Parlamento ha votato la trasformazione della pollina in biomassa, non lo garantisce oggi che i suoi compagni di merende in Regione decidono l'impianto ad Este.
Chiediamo almeno un atto di coerenza.
Che si dimetta da quel partito che al nostro territorio ed alla sua gente garantisce un unico federalismo: quello dell'inquinamento.
Che si dimetta da quel partito che al nostro territorio ed alla sua gente garantisce un unico federalismo: quello dell'inquinamento.
sabato 26 febbraio 2011
giovedì 24 febbraio 2011
Incontro con le associazioni - Venerdì 4 marzo
La lista Civica Arcobaleno–Sel sta discutendo il programma con cui si presenterà alla prossima campagna elettorale per le elezioni che si terranno il prossimo 15-16 maggio.
Le sfide che ci attendono e che attendono la nostra città per i prossimi cinque anni sono numerose ed importanti.
Crediamo che la redazione di un programma condiviso, frutto del confronto tra le diverse realtà economiche, culturali, ambientali che vivono ed operano nella nostra città, sia il primo passo e certo il più importante per costruire una città sostenibile che possa reggere il confronto con realtà europee analoghe. Per questo chiediamo il contributo di tutti, semplici cittadini ma anche associazioni.
La lista Civica Arcobaleno, nella sua nuova veste, insieme a Sel (Sinistra, Ecologia e Libertà) per Nichi Vendola, si mette a disposizione per discutere insieme i problemi e per raccogliere osservazioni, suggerimenti e idee, affinché si possa elaborare un programma elettorale, della maggioranza che sosterrà candidato sindaco Giancarlo Piva, che sia il programma di tutti i cittadini.
Con questo intento vi invitiamo a partecipare all’incontro pubblico che si terrà venerdì prossimo 4 marzo alle 21 nella sala civica di vicolo Mezzaluna.
Lista civica Arcobaleno-Sinistra Ecologia Libertà con Nichi Vendola
venerdì 18 febbraio 2011
mercoledì 16 febbraio 2011
Sul Revamping
COMUNICATO STAMPA
Este
Il neonato Circolo Sel Bassa Padovana, insieme alla Lista Civica Arcobaleno di Este, esprimono solidarietà ai Comitati "Lasciateci Respirare" ed "E Noi?", destinatari di una richiesta di risarcimento danni di € 160.000,00 da parte di Italcementi S.p.a. per asserita diffamazione oltrechè alle amministrazioni del centro sinistra di Este e Baone che hanno manifestato la loro opposizione al revamping.
Il nostro partito, assieme alla Civica, ritengono questa richiesta irricevibile da parte non solo dei Comitati ma anche di tutti i cittadini dell'area, i veri danneggiati dalla ingombrante e pericolosa presenza di una produzione che da decenni emette in aria tonnellate di inquinanti, come Pm10 ed altre sostanze.
Chiediamo alla Fillea-C.g.i.l. e alla Filca Cisl di prendere responsabilmente le distanze dalle direttive della multinazionale, chiedendo alla direzione di ritirare la citazione contro i comitati.
Chiediamo alla Fillea-C.g.i.l. e alla Filca Cisl di prendere responsabilmente le distanze dalle direttive della multinazionale, chiedendo alla direzione di ritirare la citazione contro i comitati.
Riteniamo infatti che solo così si possa ricostruire un rapporto unitario tra operai e cittadini nella prospettiva di un diverso modello di sviluppo per il nostro territorio, non più basato sulla cementificazione.
Temiamo che le cementerie, come già paventato dalle associazioni ambientaliste e da numerosi esperti, possano riconvertire nel breve-medio periodo la produzione del cemento all'utilizzo del cdr (combustibile da rifiuti) affossando così in modo irreparabile ogni possibilità di promuovere una nuova green economy.
Il costo sociale ed umano che la nostra collettività sostiene già oggi in termini di malattie bronco-polmonari è notevole.
Milioni di euro che si potrebbero investire in produzioni eco-compatibili per la salvaguardia del paesaggio, della salute e della felicità di chi abita nel nostro territorio.
Riteniamo infine che il ricatto occupazionale non funzioni.
Poco meno di cento dipendenti possono venire ricollocati, nell'arco di qualche anno, nel territorio.
Nel nuovo ospedale Unico, ad esempio, che sorgerà entro breve a Schiavonia.
E' necessario un Tavolo occupazionale della Bassa Padovana che riunisca tutti i soggetti interessati per elaborare e programmare l'economia futura del nostro territorio e la salvaguardia occupazionale dei suoi residenti.
lunedì 7 febbraio 2011
Quando gli alberi si misero a viaggiare
di Francesco Erbani, la Repubblica, 05/04/2007
La storia del melo è esemplare fra le tante storie di alberi da frutto di cui Giuseppe Barbera narra in Tuttifrutti (Mondadori, pagg. 201, euro 9,40, con prefazione di Carlo Petrini), un libro che dietro il titolo rockettaro racconta invece la grande, favolosa, ma a tratti triste avventura del rapporto fra gli uomini e l'ambiente. Barbera insegna Colture arboree all'università di Palermo. Nella Valle dei Templi di Agrigento ha allestito un museo che raccoglie millecinquecento alberi i quali documentano trecento varietà di mandorli. Poco più in là, nel vallone profondo fra il Tempio dei Dioscuri e quello di Vulcano, insieme a un altro agronomo, Giuseppe Lo Pilato, e al Fai, ha riportato alla luce il giardino della Kolymbetra, dove ai tempi della città greca c'era una piscina con pesci e cigni, e che ora, dopo essere stato abbandonato per decenni, è di nuovo uno spettacolo di orti e di agrumi che ha la forza suggestiva di contrastare l'abusivismo edilizio che vilipende la Valle.
Il libro di Barbera è una storia culturale dell'albero da frutto, si aggira fra botanica, letteratura e mito, fra agronomia ed economia. E ogni capitolo è intestato a un albero: albicocco, arancio, carrubo, castagno, ciliegio, fico, ficodindia, limone, fino a pistacchio e susino. La storia inizia diecimila anni fa, quando gli uomini, stanchi di vagare fra le boscaglie africane, impararono i rudimenti della tecnica agricola e diventarono più stanziali. Ma per allevare gli alberi da frutto occorreva una città e quindi si attesero ancora cinquemila anni prima che si giungesse a prodotti commestibili. «La frutticultura», annota Barbera, «compie i suoi primi passi in compagnia della scrittura, della religione, della filosofia e della metallurgia». Segna la nascita della civiltà. Ma fa anche emergere un orizzonte simbolico meno dominato dalla paura. L'albero delle foreste cresceva e moriva, e soprattutto giganteggiava, inducendo negli uomini un senso di sottomissione che scompare con l'albero fecondo, che invece dona i suoi frutti e che stimola una migliore confidenza con la natura.
L'albero da frutto, racconta Barbera, viaggia da un continente all¿altro, arriva in Europa dalla Cina, dalla Mesopotamia, dalla Palestina, dalle Indie occidentali e diventa il protagonista del paesaggio mediterraneo soprattutto quando, dopo la rivoluzione agraria avvenuta nell'Ottocento, dal chiuso di un giardino dilagherà sulle colline e nelle pianure e si arrampicherà sui fianchi delle montagne o disposto sui terrazzamenti. È un'evoluzione controllata dall'uomo, che riordina i paesaggi seguendo consuetudini antiche, ma anche innovando - e innovando nel rispetto di un codice genetico, di uno statuto dei luoghi.
Storia culturale degli alberi significa intanto storia delle colture, della sapienza contadina che innerva le discipline agronomiche fino a quelle a più alto contenuto scientifico. E di questi acquisti della civiltà il libro di Barbera è ricco di esempi. Ma storia culturale è anche quella che raccontano le esperienze letterarie. Per definire la luminosità di un dipinto, Virginia Woolf scrive che ha qualcosa «di roseo e morbido, di splendente e tenero come le albicocche pendenti da un muretto di mattoni nel sole pomeridiano». Carlo Emilio Gadda, invece, includeva le albicocche fra «i materiali preziosi, limpidamente tramutabili in vita, il più accreditato precedente del mio cervello donde irrorare di vitamine e rifornire d'idrati la città senza frutto». Il carrubo lo ritroviamo nell'epopea di Gilgamesh e iscritto nell'onomastica dei Malavoglia di Giovanni Verga - la Mangiacarrube. E quando la letteratura declina verso le parole in musica, conservando comunque l'aspetto di grande documento antropologico, si ascolta il rimpianto di un'Italia primi Novecento che si cibava di zuppa di ciligie secche con pane bollito: «Reginè quanno stive cu mmico / nun magnave ca pane e cerase, / nui campavamo 'e vase, e che vase / tu cantave e chiagnive pe' me» (le cerase in napoletano sono appunto le ciliegie).
Barbera racconta poi le sorprendenti avventure storiche e botaniche del ficodindia che si possono intitolare alle meraviglie della biodiversità. Dopo la scoperta dell'America in entrambi i continenti prevalse la reciproca diffidenza. La paura induceva a guardare alla diversità dei prodotti dell'uno e dell'altro come una nebulosa piena di insidie. Una paura culturale e non biologica. Il ficodindia ha origine azteca e ai primi conquistadores penetrati nelle foreste centroamericane apparve come «la più selvatica e la più brutta» delle piante del nuovo mondo, una specie di alieno rispetto alle migliaia di specie che popolavano la flora europea. Ma dopo qualche tempo, il ficodindia aprì un varco e prese a colonizzare l'agricoltura mediterranea, uscì dai giardini delle corti dove veniva esibito come fenomeno eccentrico e diventò uno degli elementi paesaggisticamente distintivi delle colture siciliane, per esempio, inserendosi nei nuovi ambienti con straordinario spirito di adattabilità, finendo per essere assimilato come tipico di un habitat mediterraneo. Gustave Flaubert, per esempio, disegna con i fichidindia il paesaggio cartaginese dove si svolge il dramma di Salammbô.
E arriviamo così al melo, la cui storia sintetizza quella recente del paesaggio agrario, segnata dal degrado. In generale i frutteti, sopravvissuti per secoli ai bordi delle città, sono stati i primi baluardi a cadere sotto i colpi della dissennata espansione urbana avviata negli anni Cinquanta del Novecento. Ne sono triste documento i giardini di agrumi nella Conca d'Oro intorno a Palermo, e in particolare quelli dove nel secondo dopoguerra venne messo a punto il Tardivo di Ciaculli, un mandarino con pochi semi che matura fra febbraio e marzo: quei giardini sono assediati dalla mafia e dall'ingordigia della speculazione edilizia.
L'altro aggressore dei frutteti che tanta ricchezza apportarono all'agricoltura è la coltivazione industriale che ha specializzato le colture - tutto mais, tutto soia, tutto girasole - e banalizzato i paesaggi, abolendo siepi, alberature e piantagioni promiscue. Il melo, l'albero più diffuso al mondo, è stato vittima di questi processi. Fino agli anni Sessanta, scrive Barbera, in un ettaro di terra si piantavano da cento a cinquecento alberi alti anche otto metri, oggi si arriva a tredicimila, mai più alti di due metri, sostenuti da pali di cemento e fili di ferro, concimati chimicamente e protetti con teli di plastica. È la mitologia della produttività, la quale impone, spiega Barbera, la rincorsa a varietà che incontrino il gusto globale e in grado di resistere anche dodici mesi. E come tutte le mitologie, anche questa nasconde una falsa credenza, quella di contrastare con la quantità invece che con la qualità le mele che si producono in luoghi con costi di manodopera anche cento volte inferiori ai nostri.
Dagli anni Sessanta non è più possibile arrampicarsi sugli alberi di mele. Sopravvivono come delle rarità protette alcune antiche varietà, le Annurche, la Roggia, la Panaia, la Broccia, la Bianchina, la Rosa, la Ciucca, la Conventina, ognuna delle quali associata a un determinato luogo e a uno specifico paesaggio, «frutta / con dentro ancora una volta, tutta la campagna, sconfinata», avrebbe detto Rainer Maria Rilke.
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