lunedì 7 marzo 2011

Paesaggio ed energia

di Giuseppe Barbera

Il Protocollo di Kyoto e la Convenzione Europea sul Paesaggio di Firenze hanno entrambe poco più di dieci anni. Ciascuno per proprio conto ha reso evidente e tradotto in indirizzi e azioni antecedenti consapevolezze culturali che vedevano nel contrasto allo sperpero delle risorse energetiche non rinnovabili, ai cambiamenti climatici e al saccheggio territoriale gli elementi significativi, anzi fondativi, di un futuro accettabile per il Pianeta e i suoi abitanti. 
Oggi è però evidente che interessi che dovrebbero convergere si ritrovano troppo frequentemente su fronti contrapposti. Da una parte i promotori delle energie rinnovabili, dall’altra i difensori del paesaggio: antiche alleanze che facevano parte del campo comune della tutela e della valorizzazione delle risorse naturali e culturali si rompono. Non si tratta di scegliere da che parte stare: le ragioni di entrambi sono fondate. Finitezza delle fonti non rinnovabili, impatti climatici, inquinamenti ambientali sostengono quelle di chi si trova dalla parte del solare, dell’eolico e delle biomasse. Rispetto delle identità locali, valori culturali, ecologici e naturalistici, agricoli e turistici reggono le ragioni dei difensori del paesaggio. Da una parte e dall’altra, ragioni legittime che riguardano insieme le prospettive economiche, la creazione di posti di lavoro, la compatibilità etica, la soddisfazione culturale. È evidente che si tratta di ricomporre una frattura e se non è accettabile la distruzione del paesaggio (bene fondamentale della Repubblica, ricorda l’art.9 della Costituzione), non lo è neanche che il futuro delle energie rinnovabili sia compromesso non solo dall’incombenza della criminalità mafiosa sui parchi eolici del Sud, dagli interessi spregiudicati del business drogato dagli incentivi statali, dall’incapacità pianificatrice degli amministratori locali, ma anche da chi ritiene il paesaggio immodificabile quando, al contrario, è soggetto, essendo il risultato della storia sulla natura, a continui cambiamenti, da governare così come la diffusione delle energie rinnovabili. 
La ricomposizione degli interessi e delle politiche è possibile a partire dalla constatazione che in Italia c’è abbondanza di sole e di vento ma non di territorio. Ci sono, quindi, le condizioni primarie per la diffusione auspicata delle rinnovabili, purché avvenga all’interno di regole rigorose che salvaguardino la qualità di un bene, il paesaggio, di cui siamo ricchi in ragione dei caratteri eccezionali della natura e della storia nazionale che insieme lo definiscono. Nessun Paese ha tale diversità di paesaggi: la penisola che si allunga al centro del Mediterraneo è il luogo geometrico della storia più antica e della maggiore variabilità ecosistemica, vi s’incontrano tre continenti che né il mare, mai troppo vasto, né le montagne, mai realmente invalicabili, hanno diviso e dove la diversità dei caratteri ambientali, la grande ricchezza biologica, l’incontro millenario con le più importanti civiltà agrarie e il loro patrimonio di piante, animali, tecniche, costumi e rapporti sociali hanno determinato l’affermarsi di una pluralità di paesaggi, spesso opposti per la contrapposizione degli elementi che li definiscono. Non esiste un paesaggio italiano, ne esistono mille, ma molti di essi sono minacciati, come suggeriscono i dati riguardanti i cambiamenti dell’uso del suolo. In Italia cresce rapidamente la superficie urbanizzata (secondo i dati Corine Land Cover nel decennio 1990-2000 su oltre 900 km2, e il trend nel decennio successivo non è certo cambiato), diminuiscono le superfici agricole (1.400 km2) e crescono di 835 km2 i boschi (cosi li definisce la statistica, ma spesso si tratta di superfici avviate da incerti processi di rinaturalizzazione all’instabilità e al degrado). Gli abbandoni agricoli, per evidenti ragioni legate a difficoltà d’intensificazione produttiva (carenza d’infrastrutture, difficoltà di meccanizzazione,…) e alle opportunità offerte dai centri urbani, sono più frequenti in montagna e in alta collina dove la SAU (Superficie Agricola Utilizzata) è diminuita tra il 1990 e il 2005 del 14%, a vantaggio dei “boschi”: un’intensità di abbandono doppia rispetto alla pianura nella quale l’urbanizzazione, le infrastrutture, il trionfo della monocoltura agricola hanno travolto i paesaggi storici d’interesse culturale e ambientale. 
Il paesaggio sopravvissuto all’industrializzazione dell’agricoltura, all’urbanizzazione, all’abbandono della montagna, il paesaggio variamente definito storico, tradizionale, culturale è ben di più di uno spazio produttivo o di solo valore estetico. Quando per produrre 1 MW attraverso il 
fotovoltaico si sottraggono 2 ettari questi non sono solo qualche centinaio di quintali di pannocchie di mais o di ettolitri di vino in meno, perché il paesaggio agrario non è riproducibile né globalizzabile, proprio perché figlio della natura e della storia (non possiamo ricreare, se non negli ecomusei, il paesaggio della coltura promiscua né, tanto meno, importarlo dalla Cina!) ed è sempre multifunzionale. Ricorda la Convenzione Europea che «svolge importanti funzioni d’interesse generale, sul piano culturale, ecologico, ambientale e sociale e costituisce una risorsa favorevole all'attività economica, e che, se salvaguardato, gestito e pianificato in modo adeguato, può contribuire alla creazione di posti di lavoro». 
Il patrimonio italiano di paesaggi d’interesse naturalistico, produttivo - agrario e culturale è una risorsa straordinaria, va difesa e valorizzata. Da esso si ottengono produzioni di alta qualità e con caratteri di tipicità territoriale e nello stesso tempo si salvaguardano equilibri ambientali primari (quelli, ad esempio, derivanti dalla difesa del suolo e dalla regolazione del ciclo dell’acqua), si conserva la biodiversità specifica, intraspecifica ed ecosistemica e si mantiene funzionale il mosaico ecologico (lo scambio di materia, energia, organismi) formato da sistemi agrari e seminaturali di diversa tipologia. Molti paesaggi, soprattutto se tradizionali, sono determinati da sistemi “biologici” che ricorrono a risorse e processi endogeni (fotosintesi, fissazione dell’azoto atmosferico, controllo biologico,…) risultando autonomi dal punto di vista energetico, produttivi in termini di reddito, gradevoli in termini estetici e di funzionalità ecologica. A questi valori si aggiungono quelli propri dei beni culturali anche con positivi riflessi in termini di valorizzazione economica come è facilmente dimostrabile dal successo dell’agriturismo, degli itinerari enogastronomici, dal valore raggiunto da terreni e manufatti nelle zone d’interesse paesaggistico. Non ultimo, conservano nella biomassa e nella sostanza organica del suolo grandi quantità di carbonio ridotto sottratte all’atmosfera e all’incremento dell’effetto serra. 
Sono funzioni e valori compatibili con le energie rinnovabili soprattutto quando esse assumono l’aspetto diffuso che è proprio nei caratteri della risorsa (il sole, il vento) che li attiva e non si concentrano in porzioni ristrette di territorio e quando si considerino anche gli equilibri ecosistemici e i bilanci energetici, del carbonio e dell’acqua; bilanci che se verificati turberebbero i sogni e le certezze dei sostenitori di molte energy crops. La concentrazione – paradossale rispetto alla diffusione territoriale di sole e vento - nei parchi eolici aggrappati ai crinali di una montagna o nelle fattorie solari risponde a criteri di economicità operativa e a necessità di ridurre i costi di produzione, ma non giustifica né gli scempi delle montagne meridionali, né la nascita di solar latifundia, come qualcuno chiama le grandi fattorie fotovoltaiche “a terra” arrivando a evocare un brutto passato piuttosto che un futuro accettabile. 
Invocare la difesa del paesaggio per fermare la diffusione delle rinnovabili, limitandosi ad auspicarne la presenza esclusivamente “sui tetti” o su aree degradate non è sufficiente se solo si ha evidenza del futuro energetico e climatico. Per un futuro compatibile con le necessità, i desideri e i sogni bisogna salvaguardare il paesaggio e diffondere le rinnovabili. Su quale strada avviarsi lo dice la Convenzione sul Paesaggio quando considera che «le evoluzioni delle tecniche di produzione agricola, forestale, industriale e pianificazione mineraria e delle prassi in materia di pianificazione territoriale, urbanistica, trasporti, reti, turismo e svaghi e, più generalmente, i cambiamenti economici mondiali continuano, in molti casi, ad accelerare le trasformazioni dei paesaggi». La trasformazione è insita nel concetto stesso di paesaggio e i paesaggi dell’energia sono via via mutati: montagne disboscate, territori ammorbati dalle polveri del carbone, tralicci, oleodotti e raffinerie, dighe, fino ai paesaggi mostruosi di Chernobyl. Che tra paesaggio ed energia la relazione sia stretta lo sapevano bene gli agricoltori della policoltura che disegnavano il loro campo, attraverso sistemazioni del terreno, rotazioni, avvicendamenti, colture promiscue, in funzione della massimizzazione dell’apporto energetico fotosintetico e della riproducibilità dei fattori produttivi (suolo, acqua). Per la loro fondante multifunzionalità, equilibrata in termini ecologici, estetici, etici, i paesaggi tradizionali vanno difesi e valorizzati (è recente la pubblicazione di un Catalogo Nazionale da parte del Ministero delle Politiche Agricole) e la diffusione delle energie rinnovabili non può non tenere conto di essi come dei vincoli che derivano dal patrimonio naturale (Parchi, Riserve, zone SIC e ZPS) e culturale espressi nei piani 
paesistici laddove esistono o sono in vigore. I nuovi paesaggi dell’energia vanno pianificati: non lasciati alle scelte delle industrie, alla disperazione di agricoltori in bolletta, all’incapacità gestionale degli amministratori locali. Vanno progettati nuovi paesaggi e nuove architetture. Va potenziata la ricerca, dando risposte vere agli agricoltori che si aspettano serre coperte da pannelli che non sottraggono il sole alle colture che dovrebbero far crescere e colture energetiche che non abbiano bisogno di acqua, fertilizzanti e macchine in quantità tali da richiedere più energia di quanta producano. I nuovi paesaggi, perché abbiano successo, vanno pensati e realizzati in concorso con chi li vive e li usa (ricorda la Convenzione Europea che i paesaggi sono tali in quanto «percepiti dalle popolazioni»). La diffusione senza regole dei parchi eolici o del solare “a terra” solleva invece conflitti che frenano il necessario sviluppo delle rinnovabili. Conflitti che riguardano il mosaico paesaggistico e le sue funzioni con la diffusione di aree industriali (tali sono i parchi eolici e solari) che interrompono flussi e relazioni necessarie agli equilibri ambientali e culturali che non si risolvono né aggrappandosi solo ai valori economici (“l’incubo del contabile”, lo definiva Keynes ritenendo che «distruggiamo le campagne perché le bellezze naturali non ci danno alcun dividendo») né appellandosi allo slogan della “bellezza che salverà il mondo”. Se non altro perché Dostoevskij, che ne sarebbe l’inconsapevole autore, si era in realtà posto (L’idiota) una domanda: «È vero, principe, che una volta avete detto che il mondo sarà salvato dalla bellezza?». Metteva in gioco l’etica, quella dei comportamenti dell’uomo verso la natura e verso la storia, quindi verso il paesaggio. 

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