lunedì 25 aprile 2011

25 APRILE 2011 – Este

Buongiorno e buon 25 Aprile a tutti,

un saluto a tutti voi qui intervenuti: al Sindaco di Este Giancarlo Piva, ai rappresentanti di tutte le associazioni combattentistiche, d’arma e partigiane (oltre all’ANPI , il Corpo Volontari della Libertà), all’Arma dei Carabinieri, alla Guardia di Finanza, ai VVFF, alla Protezione Civile.

Ma soprattutto un caro saluto a ogni cittadino che oggi, qui, celebrando il 66° anniversario della Liberazione d’Italia dall’oppressione nazifascista e la vittoria della Resistenza antifascista, festeggia così l’Italia tutta intera, la propria Patria, poiché nella lotta di Liberazione sta il fondamento del nostro essere italiani oggi, il fondamento della nostra Costituzione repubblicana che custodisce l’identità comune della Nazione.

Mi chiamo Irene Barichello, ho 29 anni e vi porto il saluto dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia di cui faccio parte dal 2006, da quando cioè i nostri “grandi vecchi” hanno deciso che la loro associazione, costituita il 6 giugno 1944, a Roma, dal CLN del Centro Italia, e qualificata come Ente morale il 5 aprile del 1945, ha deciso di aprirsi anche a chi la Resistenza non l’aveva combattuta, ai semplici antifascisti. Hanno voluto, insomma, ancora una volta con un gesto di grande generosità e fiducia, passare il testimone alle nuove e più giovani generazioni, sicuri che i valori per cui avevano vissuto e – in molti – erano morti dovessero vivere e diffondersi ben aldilà delle loro vite. Erano, quelli in cui credevano, valori positivi, universalmente validi condivisibili, parlo di pace, solidarietà, uguaglianza, giustizia, libertà. Parlo di tutti i valori, diritti e doveri sanciti nella nostra bellissima e giovane Costituzione, tanto che il comma L dell’art. 2 dello Statuto dell’ANPI mette fra gli scopi degli aderenti il «concorrere alla piena attuazione, nelle leggi e nel costume, della Costituzione Italiana, frutto della Guerra di Liberazione, in assoluta fedeltà allo spirito che ne ha dettato i principi».

Sento parole simili e non posso, con una certa amarezza, non pensare alle recentissime proposte di alcuni esponenti della maggioranza di governo di modificare – per esempio, ma è solo uno degli ultimi assalti in ordine di tempo – la XII disposizione transitoria e finale della nostra costituzione che recita: «È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista» e in base alla quale, con la legge n. 645 del 20 giugno 1952, si prevede il reato di apologia di fascismo, commesso da chiunque «fa propaganda per la costituzione di un'associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità» di riorganizzazione di quel disciolto partito, oppure da chiunque «pubblicamente esalta esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche». E, attenzione, la riorganizzazione del partito fascista si intende «quando un'associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie di quel partito, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista».

Ripeto ancora, dentro di me, queste parole, che sono leggi dello Stato, e penso alle tante, troppe, sistematiche volte in cui, invece, le nostre istituzioni democratiche sono state denigrate, il nostro tricolore vilipeso, il razzismo esaltato e proposto con becero orgoglio, facendo leva su ataviche, animalesche paure. Penso ai manifesti raffiguranti camionette cariche di fascisti e camice nere o fasci littori affissi a Roma e in altri comuni, anche del padovano, penso allo strisciante revisionismo, o peggio negazionismo, che da anni serpeggia nella nostra Repubblica camuffato sotto accattivanti copertine divenute bestsellers, penso alla gaffe (ma quanto davvero inconsapevole e innocente?) compiuta l’anno scorso dal Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca che dai nuovi programmi di storia indirizzati ai ragazzi del quinto anno del ciclo scolastico superiore avevano fatto sparire ogni riferimento alla Resistenza, all’antifascismo, alla Liberazione. Penso a qualche nostro esponente regionale di Governo che, confondendo compassione e umana pietà dovuta a ogni morto con fatti e verità storiche, equipara ancora una volta – e siamo stufi di queste falsità cocciutamente e ottusamente ripetute – partigiani e repubblichini. Tali affermazioni, che l’Assessore Donazzan (fotografata recentemente al cimitero di Valdobbiadene durante una commemorazione della famigerata X Mas) tenta di spacciare come l’unica via alla pacificazione e riconciliazione nazionale, suonano talmente false, provocatorie e inaccettabili che causano una levata di scudi addirittura tra le fila del centro destra e sono felice, come italiana, oggi, di fare mie le parole del Sindaco di Verona Flavio Tosi, leghista come quelli che oggi vogliono festeggiare solo la Festa di San Marco che ha chiarito: «Sui valori della libertà e della democrazia contrapposti alla dittatura e alla barbarie nazifascista, non c'è da discutere. Ha fortunatamente vinto chi era nel giusto. Quella del 25 aprile dovrebbe essere una festa di tutti perché, grazie a quegli eventi, tutti possiamo vivere in una società libera e democratica. Gli artefici della Liberazione, oltre alle Forze Alleate e all'Esercito Italiano, furono le Forze partigiane, le quali rispecchiavano una pluralità di opinioni politiche: sarebbe ingeneroso e oltraggioso nei loro confronti iscriverle d'ufficio a una sola parte».

Davvero Tosi tocca, in pochissime righe, temi fondamentali per una corretta lettura della Resistenza: la varietà delle sensibilità politiche che ingrossarono le brigate partigiane.

Mente chi vorrebbe fare di ogni partigiano e resistente un comunista! Mente e reca offesa alla memoria e all’identità dei tanti che hanno dato la giovinezza e la vita per il riscatto della nostra Italia: certo vi erano i comunisti, come il Rettore e latinista Concetto Marchesi, delle brigate Garibaldi, ma anche i militanti del Partito d’azione attivi nelle squadre di Giustizia e Libertà come il liberale prof. Egidio Meneghetti o il federalista Silvio Trentin; ancora le formazioni militari di ispirazione cattolica che portano i nomi di Damiano Chiesa, un irredentista di Rovereto fucilato dagli austriaci come disertore nel 1916, e del vostro Guido Negri, capitano cattolico di Este morto durante la prima guerra mondiale. E cosa dire dei nostri militari? Il 90% dei quali, dopo l’8 settembre ’43, ha preferito restare internato nei campi tedeschi piuttosto che barattare il rientro in patria con la propria adesione alla Repubblica Sociale di Salò, voluta dagli occupanti nazisti e a loro asservita? Erano tutti comunisti? Che dire, poi, del ruolo della Chiesa nella campagna veneta? Il suo progressivo schierarsi verso la Resistenza fece sì che il mondo rurale, ove così ampiamente era radicata la presenza del clero, uscisse dalla sua alterità e, qualche volta attivamente, più spesso passivamente (nascondendo, dando viveri e vestiti, non denunciando), abbracciasse piuttosto la causa della Resistenza che non la causa dei suoi avversari. Erano per questo tutti comunisti quei contadini? Tonache rosse tutti i parroci? Banali e riduttive sciocchezze.

Agli anacronistici estimatori della mortifera X Mas, ai nostalgici della RSI e dei collaborazionisti fascisti che spesso, specie nelle zone di confine del Litorale Adriatico, erano ai diretti ordini e dipendenze del Führer Hitler e a lui, oltre che al Duce, prestavano giuramento di obbedienza assoluta, a tutti coloro che vorrebbero – in nome della pacificazione – non compiere loro un passo avanti, ripulendosi dalle ideologie violente e xenofobe nazifasciste, ma preferirebbero trascinare i valori dei nostri resistenti nel fango indistinto della guerra e dei suoi inevitabili crimini, ecco a tutti questi basti la risposta che Ferruccio Parri diede già nel 1945:

«Sono poi venuti i contabili maligni dei misfatti partigiani. Ma sì, lo sappiamo anche noi, ci fu nel movimento partigiano il buono e il cattivo, gli eroi e i saccheggiatori, i generosi e i crudeli, ci fu un popolo con le sue virtù e i suoi vizi.

Tutto vero. Tutto da noi già detto, proclamato, deplorato e condannato. Ma basta un’oncia della fede che ha animato in un’ora decisiva della sua storia il popolo italiano per riscattare ogni scoria.

Non si può cancellare dalla storia d’Italia un movimento storico di fierezza e di generosità. Non si può cancellare questa guerra di popolo, nata dal popolo. Rimanga per l’avvenire come premessa e promessa di libertà e di democrazia».

Ecco, bastino queste parole e si possa, finalmente celebrare la Liberazione come momento di chiamata a raccolta delle forze migliori del nostro Paese. Non mi si tacci, vi prego, di sterile retorica della Resistenza, come ebbe già a dire il grande Piero Calamandrei: «Fra un secolo si immaginerà che in questa nostra Assemblea, mentre si discuteva sulla nuova costituzione repubblicana, seduti su questi scranni, non siamo stati noi, uomini effimeri, di cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato un popolo di morti, di quei morti che noi conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai giovanetti partigiani. […] Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più difficile; quella di morire, di testimoniare con la fede e la morte la fede nella giustizia».

Non c’era retorica, anzi, nelle azioni partigiane condotte nell’estense e nel montagnanese: qui, come in tutte le zone che conoscono miseria, lavoro precario, disoccupazione e rapporti sociali di dura contrapposizione e emarginazione, hanno attecchito anche organizzazioni predatorie di banditi e rapinatori; è in quest’area che si è sviluppata, poco prima della guerra, la banda Bedin. Tra i giovani maschi poveri non mancano quindi ladruncoli e banditi, che esprimono nelle azioni illegali la loro aggressività e la loro voglia di rivalsa sociale. È significativo che non pochi dei renitenti e poi dei partigiani di questa zona, soprattutto tra i garibaldini ma anche tra le brigate cattoliche, vengano proprio da questi ambienti. L’esempio più celebre è quello di Clemente Lampioni, “Pino” (che però proviene dal Piovese) uno dei quadri della banda Bedin che, a quarant’anni, diventerà uno dei più valorosi partigiani della garibaldina divisione Garemi. In montagna sarà un commissario cosciente e scrupoloso. Tornato a Padova morirà da eroe sulla forca di via S. Lucia, assieme a Flavio Busonera ed Ettore Calderoni, il 17 agosto 1944.

Pensava forse a loro Calvino, quando nel 1964 scrivendo una nuova prefazione al suo Sentiero dei nidi di Ragno, rispondeva così ai detrattori della Resistenza: «D’accordo, farò come se aveste ragione voi, non rappresenterò i migliori partigiani ma i peggiori possibili, metterò al centro del mio romanzo un reparto tutto composto di tipi un po’ storti. Ebbene: cosa cambia? Anche in chi si è gettato nella lotta senza un chiaro perché, ha agito un’elementare spinta di riscatto umano, una spinta che li ha resi centomila volte migliori di voi».

La stessa voglia di riscatto, di libertà, dignità e giustizia agiva nei nostri Partigiani, fossero comunisti, socialisti o cattolici democristiani come i comandanti militari Mario Tognato, Michele Salvini e Agostino Sartori Borotto, tutti del CLN di Este che iniziano a muoversi grazie anche al consistente lancio alleato di armi ed esplosivi. La loro formazione era intitolata all’eroe cittadellese Luigi Pierobon, partigiano cattolico fucilato nella caserma di Chiesanuova: si specializzeranno in sabotaggi e attentati ai ponti ferroviari e stradali. Per chi viene catturato la sorte è spietata: la morte arriva dopo lente, lunghe e atroci torture (insuperabile per questi lavori sporchi fu la banda del maggiore Mario Carità, alle dirette dipendenze tedesche). Le ritorsioni nazifasciste di perpetrano anche sulla popolazione civile, e non sempre come rappresaglia a seguito di colpi partigiani: soprattutto nell’aprile del 1945, sentendo la fine ormai prossima e gli alleati anglo-americani alle calcagna, nazisti e fascisti operano massacri atroci anche di fronte al semplice rifiuto della popolazione di consegnare animali o viveri o in seguito all’arresto di alcuni loro camerati. Succede anche nell’estense e nel montagnanese, dove i tedeschi ammazzano complessivamente una sessantina di persone in vari paesi, fra cui Pra di Este.

Era davvero il colpo di coda di una forza violenta e malvagia, che ha generato morte e distruzione fino a un attimo prima di spegnersi.

Lo sapeva anche Giordano Cavestri, “Mirko”, 18 anni, studente di Parma, medaglia d’oro al valor militare, che scrisse questa lettera appena prima di essere fucilato dai nazifascisti il 4 maggio 1944. Vogliono avvicinarmi alla conclusione di questa cerimonia con le sue parole:

“Cari compagni, ora tocca a noi. Andiamo a raggiungere gli altri tre gloriosi compagni caduti per la salvezza e la gloria d'Italia. Voi sapete il compito che vi tocca. Io muoio, ma l'idea vivrà nel futuro, luminosa, grande e bella. Siamo alla fine di tutti i mali. Questi giorni sono come gli ultimi giorni di vita di un grosso mostro che vuol fare più vittime possibile. Se vivrete, tocca a voi rifare questa povera Italia che è così bella, che ha un sole così caldo, le mamme così buone e le ragazze così care. La mia giovinezza è spezzata ma sono sicuro che servirà da esempio.

Sui nostri corpi si farà il grande faro della Libertà” .

Grazie anche a lui abbiamo oggi una costituzione intrinsecamente antifascista «non – come ricorda il giovane costituzionalista Marco Gianpieretti – perché sia stata scritta da antifascisti desiderosi di vendicarsi dei torti subiti, ma perché con essa i Costituenti hanno deciso di voltare definitivamente pagina rispetto alle tragiche esperienze del fascismo e della guerra […] L’antifascismo della nostra Costituzione non sta dunque soltanto nella XII disposizione transitoria e finale, che vieta la riorganizzazione del disciolto partito fascista […] ma sta nei fondamenti e nell’architettura del sistema. Un sistema articolato, plurale e aperto che mette al centro la persona umana, con la sua dignità e i suoi diritti, e pone lo Stato al suo servizio».

La festa della liberazione è un riassunto. Un riassunto di tutto ciò che di bello e importante c’è nella nostra Italia. La Repubblica stessa comincia da lì. C’è sempre stato e sempre ci sarà chi insulta la memoria. Il modo migliore per contrastare chi mortifica il 25 aprile è fare memoria. Non basta delegare il racconto ai più anziani, a quelli che c’erano. Tra non molto non avremo più la memoria diretta di chi ha fatto la resistenza – unico sicuro antidoto al revisionismo. Dovremo allora prepararci sui libri e, soprattutto, fare nostri fino in fondo, fino a renderli parte di noi, del nostro pensare ed agire, quei valori. Farlo non è semplice, è un onore ma anche una necessaria responsabilità civile. I valori non muoiono con chi li ha costruiti. Dipende da noi. Tocca noi, come ci ha chiesto prima di morire, il partigiano “Mirko” rifare questa povera Italia, col suo sole così caldo, rifarla come l’avevano sognata loro e come vogliamo sognarla ancora noi.

Viva la Resistenza! Viva l’Italia!

Irene Barichello

ANPI Padova

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